Educare alla speranza. Non so se esiste una vera e propria branchia dell'educazione che si chiama così, ma sento che questa espressione può essere un buon punto di partenza per raccontare la mia esperienza di Servizio Civile Internazionale.
Nel 2007 ho partecipato al “Progetto Caschi Bianchi – Corpo civile di Pace” e grazie all'Associazione Papa Giovanni XXIII ho vissuto nove mesi della mia vita al “Cicetekelo Youth Project” di Ndola, in Zambia.
Questa avventura è nata dalla voglia di prendere il mano il copione della mia vita, come scrivevo nel post precedente, e grazie ad una serie di circostanze sono arrivato fino a quelle terre lontane.
A dire il vero non è stato facile prendere questa decisione. Pensavo che superato lo scoglio delle selezioni tutto sarebbe stato semplice. Invece lasciare il lavoro per sempre, allontanarmi per un po' dagli affetti, dalla famiglia, dai luoghi a me cari, tutto ciò si rivelò come un ulteriore ostacolo.
Ma troppa era la voglia di mettermi in gioco e troppo il privilegio di poter vivere un'esperienza del genere.
Il Progetto Caschi Bianchi è parte integrante del Servizio Civile Nazionale, il quale nasce dall'eredità lasciata dagli obiettori di coscienza, e dall'evoluzione successiva delle leggi in materia. Si tratta di un periodo che i giovani dai 18 ai 28 anni possono “spendere” in settori prevalentemente del sociale, in varie associazioni sparse nel territorio italiano ma non solo.
Dopo i primi due mesi iniziali di formazione, uno degli aspetti fondamentali della mia “missione” da Casco Bianco, sono partito alla volta dello Zambia.
Lì ad accogliermi ho trovato i 250 ragazzi del Progetto Cicetekelo. Questa grande struttura è nata più di 10 anni fa dall'idea di Stefano Maradini, missionario dell'Associazione Papa Giovanni XXIII.
Dopo aver visto la condizione dei ragazzi costretti a vivere nelle discariche della città o per le strade del centro decise, insieme a padre Umberto Davoli e Patrick Mulenga, di trovare una soluzione.
Cicetekelo, che in Bemba (una delle lingue zambiane) vuol dire SPERANZA, è stato il filo conduttore, la base da dove è partito tutto.
Ora il progetto è diviso in due fasi. La prima, situata nel compound di Nkwai, accoglie i ragazzi dai 9 anni fino ai 16 anni;in seguito passano alla seconda fase, dove proseguono la loro formazione scolastica e professionale.
Al termine del percorso educativo alcuni dei giovani vengono impiegati direttamente nelle varie attività produttive del progetto. Tra queste l falegnameria, l'allevamento suini, l'orto, l'agricoltura, la scultura della pietra saponaia.
Ogni giorno un turbinio di attività cominciava fin dal primo mattino. Le mie giornate le ho passate principalmente con i ragazzi della fase 1, i “miei teppisti”. Alcuni di loro frequentavano la Community School all'interno del progetto, altri invece studiavano presso le varie scuole governative della zona.
Il mio “lavoro” era quello di organizzare il tempo libero, in equipe con Caterina, mia collega Casco Bianco, il coach del progetto, e gli operatori che tutti i giorni avevano cura dei ragazzi.
Nulla di speciale o di particolarmente complicato a prima vista, ma gestire tutte quelle forze messe insieme non era invece facile.
Nonostante tutto ogni giorno si riusciva ad inventare qualcosa. Lavori con il cartoncino, pomeriggi creativi con tempere e pennarelli, tornei di tutti i tipi, addirittura le olimpiadi durante i periodi di vacanza, con tanto di squadre e premiazioni. Non sono mancate poi attività più “serie” come la biblioteca, la scrittura, fino ad arrivare alla produzione di un vero e proprio giornalino (puoi leggerlo quì) creato interamente dai ragazzi più grandi!!
E quando si poteva (i ragazzi lo avrebbero voluto tutto il giorno) ore e ore di calcio sotto il sole cocente...e naturalmente scalzi.
A quasi due anni di distanza mi chiedo che cosa mi sia rimasto di quella esperienza, e che cosa sia rimasto di me laggiù. Di sicuro ho imparato l'importanza di ascoltare e non giudicare, di sforarsi sempre e comunque di apprezzare le diversità, anche se molto spesso non le tolleriamo.
Come non parlare poi della speranza. È proprio vero che si riesce ad essere contagiosi alle volte, ma non solo con le malattie.
Quei bambini, quei ragazzi mi hanno contagiato la voglia di vivere, nonostante tutto. Sono stati i miei educatori, magari non avranno molte carte deontologiche come riferimento, ma le norme etiche me le hanno insegnate nella quotidianità. Nello stare assieme a tavola davanti alla stessa polenta, nel camminare insieme su strade polverose, nel ridere delle mie unghie rotte nelle prime partite di “calcio zambiani”, nel condividere piccoli pezzi di quotidianità.
Un progetto nato per dare speranza. Se dovessi fare una verifica, come si usa sempre fare quando c'è un progetto, direi che gli obiettivi sono stati centrati in pieno, e forse anche superati.
Quella speranza che i ragazzi ricevono, grazie ad una nuova e più dignitosa condizione di vita, esce da quella realtà così lontana. È arrivata fino a me e a tanti ragazzi che hanno avuto il privilegio di vivere un'esperienza come la mia...ed è arrivata fino a questo blog.
E allora l'educazione alla speranza potrebbe essere proprio questo: un impegno che parte da qualche parte nel mondo, ma che si propaga senza confini e che ci rende responsabili l'uno con l'altro.
Una nuova disciplina di cui tutti noi siamo responsabili in cui ci impegniamo a “nutrire” di speranza chi ne è affamato, soprattutto tramite gesti concreti, e allo stesso tempo ci lasciamo nutrire.
E Cicetekelo Youth Project, con l'impegno di tutti coloro che ci lavorano, è un piccolo esempio di educazione alla speranza.
E voi siete pronti a educare (e farvi educare) alla speranza?
Educare alla speranza
giovedì 30 aprile 2009
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