Impara l'educazione!!

sabato 5 settembre 2009
Piccola storiella
Qualche tempo fa mi trovavo a zuzzurellare per Padova viaggiando con l'autobus.
Alla fermata c'erano un po' tutte le razze del mondo, ma soprattutto parecchi africani.
L'autobus arriva e la gente si accalca nei pressi della porta. Una mamma africana, diciamo ben messa, si fa strada con la sua mole, e riesce ad intrufolarsi fra gli altri e salire, per accaparrarsi magari un posto a sedere. Fra gli spintoni un paio di signore si arrabbiano di brutto e, in puro dialetto veneto cominciano a lamentarsi della prepotenza e della maleducazione del gesto. “Impara l'educaxion, no semo miga al to paese qua'!!!”. Di risposta la donna africana e un ragazzotto che era con lei rispondono in inglese “What do you want...shut up...”
Poi saliti nel bus la discussione e' continuata a distanza, ogniuno con la propria lingua...per poi man mano smorzarsi col passare delle fermate.
Effettivamente la scena non e' stata carina. Si fa davvero fatica a convivere fra diverse culture, e lo si respira dalle cose piu' piccole e quotidiane.
Tutta quella prepotenza proprio non ci stava, e le due signore hanno fatto bene ad arrabbiarsi, pensavo. Soltanto un sorrisetto mi scappava a pensare all'improbabile dialogo intercorso fra le due parti...in cui penso nessuno ci abbia capito niente!!
di solito sono molto tollerante, tento di capire e di ragionare con la mia testa, anche in situazioni come queste, ma quella volta mi sentivo proprio infastidito...ma possibile che questi immigrati (alcuni almeno...sicuramente pochi) non riescano a capire dove sono, come funziona qui, a partire dalle cose elementari? Aggiungiamoci pure che, dentro all'autobus, il ragazzo vedendo un posto a sedere libero, ha spinto a sua volta la mamma africana per prendersi il posto, anziche' cederlo a lei, che aveva anche il bambino legato alla schiena.
Cambia il luogo, ma la scena che ho vissuto stamattina e' molto simile a quella vissuta a padova.
Sono a Dar el Salaam, in un minibus che porta alla stazione del Tazara, dove mistavo recando a prenotare il biglietti per lo Zambia per domani.
Qui c'e' la calca ad ogni ora e su ogni bus, visto che per la maggior parte delle persone e' l'unico mezzo di locomozione possibile.
E la dentro si e' davvero ammassati come le bestie. Caldo, sudori e odori di vario tipo. Io ero in piedi e pian piano, man mano che le fermate si succedevano, sono stato spinto verso la parte posteriore del bus.
La mia testa piegata perche' altrimenti proprio non ci stavo, e con le braccia tentavo di aggrapparmi qua e la per evitare cadute(le frenate improvvise sembrano essere lo sport nazionale qui!)
Ero stretto da una parte contro un ragazzo, e dall'altra ero aderente ad una ragazza, costretta anche lei ad annusarsi le mie ascelle(visto che la sua testa arrivava proprio a quell'altezza).
Ad un certo punto un signore seduto nella panchetta vicina a me si alza. Io educatamente aspetto, non mi siedo, e faccio segno alla ragazza di sedersi...lei con un sorriso annuisce. In un lampo un'altro ragazzo si lancia e si siede nel posto liberatosi....come se niente fosse. Io un po' incazzato in italiano gli dico “Potevi far sedere lei...”...se no mi sarei seduto io, no?!?!
Lui mi risponde qualcosa in Swahili che naturalmente nn ho capito...avra' detto “Impara l'educazione, non sai come funzionano le cose qui?”. Con un po' di OK finiamo la discussione e continuo il mio viaggio...e li mi e' venuta in mente la scena nel bus padovano.
Com'e' difficile conoscersi, com'e' dificile stare insieme, com'e' difficile tentare di avvicinarsi, di capire come funzioniamo, gli usi i costumi, le abitudini.
Ed io davvero ci sto provando...e spesso ci riesco per fortuna...anzi anch'io ormai ho imparato a spingere e ha sgomitare per sopravvivere nel caos e nella confusione della citta' africana!!
E' davvero difficile trovare un punto di incontro, magari a meta' strada...ma e' l'unica cosa possibile da fare...anche se richiede molto tempo.
Cosa vuol dire “Essere educati” per noi, e per un africano? E per un cinese?
Su questo bisogna lavorare...soprattutto bisogna trovare la forza di farci riconoscere...noi siamo italiani, e in italia usiamo fare cosi'...e tu come sei abituato a fare?? troviamo un accordo?? ...con delicatezza e apertura. Non dico che ad ogni salita di autobus bisogna intavolare un discorso del genere...pero' almeno pensarci...
Spesso invece si preferisce barricarsi dietro ai “Qui e' cosi', o ti va bene o ti va bene”.
Oppure semplicemente pensare che “quelli” non capiranno mai come ci si comporta....dimenticando che per loro magari e' normale comportarsi cosi'...e che non si puo' cambiare una mentalita' o un modo di comportarsi in un attimo....come pretendevo di fare io stamattina in quel minibus diretto alla stazione.
Un nuovo modo di riconoscersi, di stare insieme, di tentare di accettarsi nasce solo dall'incontro paziente...se no scegliamo la strada piu' facile, quella cioe' di accettare come insuperabili le differenze e trincerarsi dietro le nostre piccole abitudibi, magari incattivendoci e accanendosi contro il diverso...molto piu' facile che tentare di capire cos'e' il diverso...
Questo vale non solo per noi, ma naturalmente per tutti...africani dei bus padovani compresi!!!


La ricetta del riconoscimento per il superamento dei conflitti (vedere anche Ricoeur). E' sicuramente un po' piu' complicata di quella della pizza...ma il risultato e comunque piu' che buono!!
Riconoscere come identificare qualcosa.
Riconoscere se stessi.
Farsi riconoscere.
Riconoscersi reciprocamente
, creando un rapporto reciproco fra le persone in cui l'essere riconosciuti diventa ri-conoscenza, gratitudine.

Il perche' del viaggio

lunedì 20 luglio 2009
Quando si affronta un viaggio quasi sempre c'e' un qualcosa, un motivo che ci spinge.
Spesso succede di aver bisogno di evadere, altre volte invece il desiderio di scoprire posti nuovi, oppure la volgia di conoscere culture e popolazioni diverse.
Per vacanza, per studio, pel lavoro, per divertimento...da sempre il viaggio caratterizza le vite di tutti noi, e diventa metafora interiore per ogniuna delle nostre storie.
E cosi' eccomi qui, a distanza di 2 anni dal mio ultimo viaggio in Zambia, intaprendere una nuova avventura in terra africana.
Mi sono chiesto spesso cosa stessi facendo, dove stessi andando, e soprattutto cosa stessi cercando d questo viaggio.
Le aspettative spesso accompagnano ogni partenza, e lo scopo insieme a loro scandisce il passare dei giorni.
Onestamente non mi sono dato una risposta precisa.
Non ho molte aspettative, so che quello che verra' sara' tutto regalato.
Di sicuro il mio sara' un viaggio in cui voglio essere una spugna. Questa e' la mia unica attenzione, il mio modo di essere in questi due mesi in cui viaggero' nell' Est Africa, partendo dallo Zambia.
Notosiamente le spugne assorbono, fino alla saturazione, e poi rilasciano al bisgogno, quando vengono strizzate.
E come una spugna vorrei portare a casa tutto cio' che di bello e meno bello incontrero' nella mia strada. Tutto puo' essere motivo di miglioramento, tutto ci puo' insegnare qualcosa.
Dalla piu' semplice esperienza quotidiana, alle grandi riflessioni sul mondo e sull'andamento della specie umana.
Tutto dev'essere fuso insieme, assorbito nella stessa spugna, amalgamato, e poi spremuto.
Non e' un vero e proprio viaggio di volontariato. Certo, visitero' dei progetti, realta' di varie associazioni in Zambia e in Uganda, ma penso che non faro' quasi nulla.
Spero solo di imparare molto, e assorbire, per poi attingere, una volta tornato a casa, da quella spugna zuppa e ridare linfa alla mia quotidianita'.
Un dare, un ricevere, e un dare ancora. Potrebbe funzionare cosi' questa esperienza.
E al mio ritorno spero che tutto cio' possa essere utile sia a me, sia ai miei studi, sia alle persone che mi stanno incontro, e sia per il mio futuro.
Aggiornero' quando posso il blog, magari con qualche estratto di mail che mando agli amici.
Il tutto nell'ottica di creare un ponte fra nord e sud del mondo, scopo principale di questo blog, senza troppe pretese, senza troppe aspettative, e in semplicita'!

"Sono un Educatore Professionale" - "Interessante:...e che lavoro fai?"

venerdì 19 giugno 2009
Preparando l'esame di Deontologia Professionale, sono capitato nel sito dell'ANEP, l'Associazione Nazionale Educatori Professionali, per visionare il Codice Deontologico.
Mi ha subito incuriosito una vignetta che appare in una delle schermate del sito. Uno fa all'altro “Sono un Educatore Professionale”, e l'altro risponde “Interessante:e che lavoro fai?”.
In una piccola vignetta umoristica molte verità della professione che andremo a fare.
Come affiorava dai commenti ad un post precedente, il riconoscimento della professione dell'Educatore è ancora alla fase embrionale. Capita spesso che mi chiedano cosa stia studiando, e che tipo di figura professionale sia l'Educatore. Se questo può essere tollerabile in discussioni con i non addetti ai lavori, diventa meno accettabile quando si ha a che fare con figure che lavorano magari in contesti sanitari, educativi, o comunque nel sociale.
La mancanza di riconoscimento porta anche ad una sorta di avvilimento in chi sceglie di intraprendere questa bellissima professione. Se da una parte non si è riconosciuti, dall'altra anche le gratificazioni economiche sono poche; questo forse è legato all'incapacità di far valere la preziosissima opera che l'Educatore presta in molti contesti.
Come porre rimedio a questa situazione? Sicuramente insistendo sul continuo aggiornamento e perfezionamento del Codice Deontologico, vera e propria Carta d'Identità della Professione. Tramite questo documento chiunque potrà conoscere chi è un educatore, come avviene per molte altre professioni, anche sanitarie.
Un altro sforzo va fatto dagli educatori stessi, e dagli studenti, per portare nelle sedi istituzionali la loro voce, magari con la creazione di vero e proprio albo, che darebbe finalmente una delineazione più precisa di ciò che finora risulta confuso in una miriade di figure più o meno professionali.
Nella quotidianità inoltre è necessario che ognuno si impegni, anche negli ambienti informali, a diffondere e ad educare la “persona comune”, mettendo al corrente dell'esistenza dell'educatore professionale, cercando di trasmetterne le potenzialità e le molte utilità.
E' una battaglia che va fatta insieme, anche “sfidando” le istituzioni, che molte volte si dimostrano sorde a questi temi, schiacciate da problemi di carattere economico e da opportunità di vario tipo.
Ci vorrà del tempo, ma soprattutto ci vorrà la voglia di farlo e di mettersi in prima linea. Se ciò non avverrà significa che nemmeno noi crediamo veramente in noi stessi e nella figura dell'Educatore Professionale, e ci troveremo ancora a sorridere amaramente di vignette come quella che ho trovato nel sito dell'ANEP.

La paga dell'educatore

martedì 9 giugno 2009
Qualche giorno fa ho avuto l'occasione di incontrare Enrico, un carissimo amico, che lavora come Operatore Socio Sanitario presso un CEOD in provincia di Verona. Mi sono trovato spesso a condividere con lui varie esperienze, e tuttora mi piace conoscere la sua attività lavorativa, anche in vista della mia probabile futura professione di educatore.
Si è parlato anche dell'aspetto economico, argomento che come sempre interessa, appassiona e a volte affanna tutte le categorie di lavoratori.
Come è noto nel sociale le paghe non sono così lussuose questo mi è stato confermato anche da lui, nella sua esperienza lavorativa pratica. Spesso colleghi si sono lamentati per salari ritenuti inferiori rispetto all'impegno profuso e al carico di lavoro.
Io di solito tengo in ogni cosa per ultimo l'aspetto economico in tutte le cose che faccio, ma come ogni essere che si trova a vivere in questo sistema economico, mi pongo anche questioni di questo tipo, visto che non riesco ancora a vivere senza denaro!!
Enrico però mi ha spiazzato con un'affermazione semplice, ma allo stesso tempo piena di significato. “La paga dell'educatore, come la mia, è già di per se lavorare in quel contesto. Il rapporto con i “miei ragazzi” costituisce una buona parte della mia paga.”
Questa sua affermazione mi ha fatto riflettere parecchio. E' davvero questa la verità? Oppure è un goffo tentativo di giustificare il proprio lavoro, a volte così duro, e molto spesso sottovalutato e sottopagato?
Poi, scavando nella mia quotidianità, ho scoperto quanto sia vero ciò che mi era stato detto, pur nelle mie limitate esperienze da educatore.
E' arrivata l'estate ed anche quest'anno nel mio Comune (Casalserugo), è tempo di Centri Estivi.
L'anno scorso ho avuto la fortuna di essere uno degli animatori, incaricati dall'Amministrazione di organizzare le attività educativo-ricreative per tutto il mese di Luglio.
Un'esperienza sicuramente faticosa, ma altrettanto arricchente e coinvolgente, sia per noi animatori, sia per i bambini e le loro famiglie.
Quest'anno non farò parte del team organizzativo, ma sono molti i genitori che in queste settimane mi hanno fermato per le strade del paese, chiedendomi se sarei stato ancora fra gli animatori.
Questo piccolo segno per me è un grande dono. Significa che tutta la fatica fatta a seminare qualcosa anche piccolo, insignificante, ha prodotto invece qualcosa. La fiducia instaurata con i genitori, i risultati delle attività proposte, l'entusiasmo dei bambini ancora vivo a distanza di un anno.
Anche questa è la paga dell'educatore. Una paga non fatta di soldi, ma di piccoli gesti, di riconoscimenti, di relazioni create, di fiducia...in fondo ciò che veramente da forza e motivazione all'agire educativo, forse più di premi economici o gratificazioni. Una piccola lezione, che dovrò tenere bene in mente anche nel mio futuro percorso lavorativo.

Il sogno possibile

mercoledì 3 giugno 2009
Dopo essere tornato dalla mia esperienza di servizio Civile in Zambia sono state molte le occasioni di confronto e di scambio di idee con svariate persone e in diversi contesti.
Settimana scorsa ho avuto la fortuna di essere invitato dalla mia Professoressa di religione delle superiori a tenere una testimonianza sul Servizio Civile.
Ciò che mi ha subito entusiasmato è stato il fatto di poter tornare proprio nella scuola che io stesso ho frequentato qualche anno fa. Si tratta dell'Istituto Tecnico Industriale Guglielmo Marconi di Padova, dove ho conseguito il diploma di Perito Termotecnico.
Si trattava di parlare del Servizio Civile ai ragazzi di quinta, portando la mia esperienza, le dinamiche, il contenuto dell'incontro era tutto da inventare.
Mi sono trovato così ad attingere dalle mie esperienze precedenti per trovare un modo di essere compreso e di far passare il messaggio che avevo in testa a questi ragazzi che pensavo non molto interessati.
Immaginatevi classi di 20 giovanotti, durante l'ora di religione (che a volte viene presa un po' sottogamba), in pieno periodo pre esami e immersi nelle ultime interrogazioni di fine anno. Aggiungiamoci poi che molti di loro, pensando anche alla mia storia scolastica, sono proiettati verso il mondo del lavoro, tutto ciò mi faceva pensare che una tematica come il Servizio Civile non fosse certo in cima ai loro interessi.
Così, anche in collaborazione con l'insegnante, ho pensato di partire da una cosa che sicuramente li coinvolgesse: i loro sogni.
Lo schema dei 50 minuti che avevo a disposizione per ogni classe era così distribuito:
  • Proiezione de “Il crocevia”, breve cortometraggio girato e montato insieme al mio amico Cristian Cesaro, dove raccontiamo con immagini e parole la vita di molte persone, ragazzi e bambini inclusi, all'interno di una discarica zambiana.
    Si sa, le immagini funzionano molto bene, soprattutto quando c'è da rompere il ghiaccio e creare un'atmosfera senza usare troppe parole.
  • Mi presento in poche parole, racconto la mia esperienza del Servizio Civile, e del percorso che mi ha portato a tale scelta, passando anche per il mio percorso scolastico. È stato importante per me con i ragazzi sottolineare questa mia affinità con loro, almeno dal punto di vista del corso di studi, per avvicinarmi a loro, per creare un po' di confidenza e non apparire come una sorta di “super eroe” o di “rivoluzionario”.Nel parlare del Servizio Civile, ho raccontato in termini il meno pesanti possibili in breve il cammino con cui si è arrivati a tale istituzione, richiamando termini quali l'obbligo di leva, l'obiezione di coscienza, ed infine il SCN.
  • Invito i ragazzi a presentarsi, chiedendo ad ognuno di condividere con gli altri un proprio sogno, un'aspettativa per il proprio futuro.
  • Poi con l'aiuto della lavagna abbiamo iniziato una chiacchierata proprio a partire dai loro sogni messi a confronto con i sogni dei ragazzi zambiani, magari proprio quelli che avevamo visto nel documentario, o quelli ospitati al progetto Cicetekelo, dove ho svolto servizio.
Per permettere e provocare questo confronto, ho raccontato di una sera delle tante passate con i ragazzi zambiani a chiacchierare insieme. Quella sera eravamo radunati nella “sala giochi” del Progetto. In sottofondo la tv sintonizzata in uno dei tanti canali sportivi satellitari ronzava qualcosa in inglese. In quella serata che non dimenticherò mai chiesi loro quali sogni avessero per il futuro, i desideri per la loro vita. Uno mi rispose “Io vorrei fare il calciatore, per avere i soldi, giocare all'estero, girare il mondo e essere circondato da belle donne”. Un altro “Io invece vorrei diventare pilota d'aereo per girare e vedere il mondo, per scappare da questo paese”. Un altro ancora”Io vorrei fare i soldi, non so come, ma vorrei diventare ricco per non avere più il pensiero di cosa mangiare, di come poter sfamare la mia futura famiglia etc”.
In quel momento mi prese lo sconforto. Ma come era possibile che avessero sogni così “banali”. Sembravano gli stessi sogni di ragazzi del nord del mondo senza molti ideali e senza molte pretese.
Mi scaldai un po' e dissi loro “Ma come? Ma nessuno di voi sogna di rendere migliore il vostro paese, magari scendendo in politica, oppure studiando all'università per e mettere a disposizione la propria vita per le moltissime cause di ingiustizia che dilaniano il vostro paese? Nessuno vuole qualcosa di più? Qualcosa di meglio?”.
Con il mio piccolo inglese ho detto ciò che mi sembrava ovvio in quel momento.
I ragazzi con molta semplicità mi risposero “Tu parli bene. Ma è troppo facile parlare così quando sei bianco, hai un biglietto aereo di ritorno per il tuo bello e ricco paese, un po' di soldi a disposizione, una famiglia che ti vuole bene e che ti sta aspettando e che farà sempre di tutto per proteggerti. Troppo facile parlare di sogni grandi caro amico”.
In quel momento mi si raggelò il sangue. Non sapevo più cosa dire. Le loro poche parole mi avevano fatto sentire piccolo, inutile quasi. La mia ingenua superbia era stata cancellata in un attimo. Tutte le cose che avrei voluto dire avevano perso senso.
La serata si concluse così, con quella lezione che quei ragazzi mi avevano donato e che non potrò mai dimenticare.
È proprio vero, le possibilità che noi abbiamo nella vita sono tantissime, le loro “un po meno”.
Da questo spunto sulle possibilità che noi abbiamo si è sviluppata la condivisione con i ragazzi, durante l'ultima tappa dell'oretta a disposizione. Quali sono le nostre possibilità? E quali sono quelle dei ragazzi zambiani?
Dopo la maturità ognuno di loro può scegliere una moltitudine di cose. L'università e i suoi innumerevoli corsi, il lavoro, anzi molti tipi di lavoro, si può scegliere di partire e fare i vagabondi, di partecipare ad un concorso per entrare nell'Esercito, si può buttarsi in politica, si possono fare i mantenuti...e si può di aderire al Servizio Civile. I ragazzi con cui parlavo quella sera al progetto invece potevano unicamente scegliere se continuare a frequentare i programmi proposti, oppure ritornare a vivere nella strada.
Dalla discussione è emerso che la distanza che ci separa dai ragazzi zambiani è fatta si di povertà, mancanza di educazione, e altri fattori, ma è data soprattutto dalla differenza fra le nostre possibilità e le loro. Spesso non ci rendiamo nemmeno conto di quanto possiamo fare se solo mettessimo a frutto le nostre capacità e le condividessimo.
La lavagna fra vari scarabocchi, alla fine dell'incontro ha preso una forma nuova. Si è arrivati a capire che in quella distanza che ci separa ci siamo proprio noi, con le nostre scelte, con i nostri sogni. E i sogni di molti ragazzi nel mondo potrebbero dipendere anche da come metteremo in atto le nostre opportunità.
Ecco che finalmente si arriva al Servizio Civile come vera e propria opportunità per fare questo.
Una scelta che, come dice lo slogan, ti cambia la vita, la tua e quella degli altri.
Nelle otto classi quinte che ho incontrato ci sono state discussioni diverse, ed ognuna ha portato a riflessioni diverse. Si è arrivati a parlare di razzismo, di diversità, di respingimenti, di mondo del lavoro, di crisi etc. Insomma un sacco di spunti che avrebbero meritato sicuramente più tempo.
Ciò che mi ha colpito in tutte le situazioni è stata la voglia di mettersi in gioco dei ragazzi.
Questo è stato anche il frutto di alcuni importanti fattori. Fra questi la disposizione dell'aula: niente banchi ma un grande cerchio di sedie per eliminare i limiti della lezione frontale. Il linguaggio usato, mai troppo difficile o ricercato, anzi molto vicino a quello delle situazioni informali quotidiane. Lo stesso percorso di studi, come accennavo prima, ha facilitato di molto il dialogo. Ma soprattutto penso l'averli spiazzati chiedendo loro un sogno da condividere con i compagni di classe, persone di certo conosciute, ma molto spesso solo superficialmente.
Questo mix di piccoli e semplici fattori ha portato secondo me ad una buona riuscita degli incontri. Molti ragazzi mi hanno fermato a fine lezione, chiedendomi ulteriori informazioni sulla mia esperienza sia in Servizio Civile sia scolastica (vedi dritte per l'esame di maturità...vista l'incombenza di tale impegno).
Da una cosa pensata in un modo e man mano sviluppata e adattata in altre forme è nata questa piacevole esperienza, almeno per me, che spero possa essere ripetuta anche l'anno prossimo.
Il confronto per me è parte fondamentale del mio diventare educatore. Anche questa occasione è stata un tassello di questo sogno possibile che man mano sto provando a portare avanti.
E spero davvero che tutti i sogni che i ragazzi hanno condiviso con me possano diventare realtà, e che qualcuno trovi davvero nel Servizio Civile lo spunto per scoprire il suo sogno possibile, che possa essere messo a servizio anche di chi nasce con un destino segnato, aiutandoli a realizzare i propri sogni altrimenti impossibili.

I miei piedi sporchi a fine giornata

lunedì 25 maggio 2009
Desidero condividere con voi questa lunga mail che ho scritto agli amici circa due anni fa, durante il mio Servizio Civile in Zambia.
Un piccolo ricordo che ho riletto con piacere anch'io, un sorta di richiamo anche per me stesso, un allarme a non rilassarmi troppo.
" … È proprio vero. Più cose si hanno
e più ci si allontana dalle persone. Più la corsa

a possedere cose è sfrenata, e più ci si chiude,
pensando che possedendo tutto quello che ci serve (e più),
si possa fare a
meno degli altri.
E quanto tempo perdi
amo in questa corsa,
tempo che togliamo ai rapporti con le persone,
a noi stessi…alla vita!!

Forse dovremmo davvero, io per primo,
sbarazzarci di tante COSE inutili, per vivere meglio la vita,
e soprattutto per condividerla …
"
Questo è il messaggio centrale di questa mail, che riporto per intero.
Spero apprezzerete, ogni riga contiene un piccolo pezzo di me e della mia vita.

Ndola,12 maggio 2007

Ciao cari amici!! Ci riprovo!
Dopo aver perso tutti i dati dell’ultima mail che vi volevo mandare ci riprovo...e stavolta spero vada bene!!
Qui la VITA procede bene, ricca di spunti che non mi permettono di annoiarmi nemmeno per un minuto.
In questa lettera vi racconto la visita ad un Centro Nutrizionale, che ho avuto la fortuna di vivere lunedì.
Che cos’è un centro nutrizionale? Sono strutture situate in molti compound della città di Ndola( e non solo), che offre assistenza a bambini con problemi di malnutrizione e alle relative famiglie, che spesso vivono in condizioni di miseria.
Partiamo di buon’ora diretti all’ufficio del Progetto Raimbow, un programma dell’Associazione Papa Giovanni XXIII che si occupa di coordinare e sostenere le varie associazioni che operano nel territorio a sostegno dei bambini orfani di genitori morti di AIDS. E nelle sue attività sostiene e crea una rete fra i vari centri nutrizionali esistenti.
Siamo io, un’altro ragazzo italiano che da un po’ di mesi vive con la sua famiglia qui in Zambia e un’altra volontaria sempre italiana.
Da subito capisco che sarà un’escursione particolare! Charity, la responsabile del centro nutrizionale che andremo a visitare,ci invita a salire sul cassone del camion,in mezzo ai sacchi di farina!!
La giornata è limpida. Qui la stagione sta cambiando e la mattina fa un po’ freschino. Ma io ancora devo capirle le stagioni come funzionano in Zambia. Io in magliettina e pantaloncini corti capisco subito che non avevo l’abbigliamento adatto...il fresco della mattina mi penetrava nelle ossa!!
Cominciamo bene...pensavo.
Prendiamo la strada che dalla città porta verso le sue sterminate periferie.
Attraversiamo mercatini, passaggi a livello, incrociamo centinaia di persone che camminano ai bordi della strada verso una nuova giornata che stava iniziando.
Alcuni incuriositi da quei tre “musungu”(stranieri, bianchi) che viaggiano nel cassone del camion ci sorridono.
Proprio oggi ricominciata la scuola e gruppetti di ragazzi e ragazze, tutti con la loro divisa ufficiale, stanno andando verso le lezioni...rigorosamente a piedi.
Ad un certo punto finisce l’asfalto e comincia la strada sterrata(se strada si può definire), segnale che stiamo entrando in un compound. Si perchè nei compound i servizi sono ridotti all’osso. In effetti a che cosa può servire una strada asfaltata se nessuno o quasi ha la macchina??
Tutti i compound sono simili. Curioso notare come sono costruite le case man mano che si prosegue verso il centro...di solito il punto in cui la miseria è maggiore.
Le prime “abitazioni” che incontro sono di mattoni in cemento e tetti di lamiera, ognuna con un piccolo giardino. Nulla a che fare con i nostri quartieri, ma almeno una parvenza di dignità la conservano.
Il nostro camion prosegue facendo slalom fra le buche della strada, veri e propri crateri.
Intanto alcuni bambini ci rincorrevano, sorridenti e incuriositi dalla nostra presenza. Incuranti di mangiare la polvere sollevata dalle ruote e il nero smog del camion sembrano scortarci a destinazione.
I cumuli di rifiuti a lato della strada sembrano essere li apposta per delimitare il nostro percorso.
Ci stiamo avvicinando al nucleo più interno del compound. Lo capisco dalle case, ora costruite di terra e come tetto teli di nylon riciclati, paglia e piccoli pezzi di lamiera raccattati chissà dove.
Anche gli spazi si fanno più stretti. La strada e ormai poco più che un sentiero.
Finalmente arriviamo al centro nutrizionale, dove ci accoglie una ragazza che fa gli onori di casa.
Questa struttura si presenta molto bella e ospitale per essere nel mezzo di un compound.
Le attività che vi si svolgono sono molte. Oltre all’assistenza alimentare a neonati e bambini, vengono date lezioni alle mamme su come nutrire i propri piccoli.
Esiste inoltre un piccolo centro di accoglienza dedicato ai bambini abbandonati o senza parenti e 4 classi in cui viene offerta gratuitamente la scuola a molti bambini del compound.
La nostra guida Lucky(non so se si scrive così) ci invita a seguirla per visitare alcune famiglie sostenute dal Centro.
Ebbene si, finalmente andiamo in strada, proprio all’interno del compound di Kabulonga, uno dei più poveri di Ndola. Si va ad incontrare la gente e, almeno in parte, entrare nelle loro vite.
La particolarità di questo compound è la zona in cui costruito. Una serie di colline si uniscono fino a formare una grande vallata. Mi sembra di essere nell’Appennino, è che di agriturismi qui non ce ne sono!
E il le baracche si inerpicano proprio in una di queste colline.
Prendiamo un piccolo viottolo e passiamo proprio in mezzo ad un piccolo mercato, dove decine di donne sono intente alla vendita.
La “strada” prosegue in salita.
Incontriamo un gruppo di donne ai bordi della strada, una piccola squadra di “stradine” improvvisate, impegnate a sistemare i danni lasciati dalla stagione delle piogge.
“Questa è J., una delle donne più forti del nostro compound!”, ci dice la nostra accompagnatrice.
J si gira verso di noi, sorridente. Appoggia la zappa che aveva in mano, si gira verso di noi, un piccolo inchino e un saluto. Il suo viso sotto i raggi del sole che si erano fatti roventi sudava.
La sua espressione affaticata era sottolineata dalle rughe che già portava nel volto, nonostante la sua (presumo) giovane età. Le mani poi, segnate da una vita di lavoro e fatica, sembravano più quelle di un muratore che di una donna.
Ma quel sorriso e quegli occhi emanavano una luce particolare, quasi contagiosa. È come se avesse qualcosa di “magico”, e che questo qualcosa venisse verso di noi...una sensazione che non so spiegare.
Salutiamo tutto il gruppo di donne e proseguiamo verso l’abitazione di una delle famiglie assistita dal centro nutrizionale.
Arriviamo ad un piccolo spiazzo di terra. Alcuni bimbi stanno giocando con gli aquiloni...e che aquiloni!! Come telaio del filo di ferro recuperato e come tela delle buste di plastica...e come riuscivano a farli volare. Questi bambini hanno una fantasia...e riescono a creare qualsiasi cosa anche da un rifiuto....questa cosa ancora mi affascina.
Ma la novità di 3 “musungu” che camminano nel loro compound è troppo forte, tanto che prendono su l’aquilone e si mettono a seguirci!!gridando e ridendo creano una sorte di richiamo e in pochi minuti di nuovo ci ritroviamo con una “nuvola” di bambini dietro.
Ormai la mia vista era rapita dalle mille cose che mi circondavano. Ma anche l’olfatto sembrava aiutarmi a completare quel quadro. Da una parte l’odore di fogna mischiato ad un altro molto forte di alcol penetravano nel mio naso, ed ancora di più mi facevano capire in che luogo mi trovassi.
Davanti ad una piccola casupola di terra troviamo un’anziana signora con due bambini, intenta a preparare qualcosa per il pranzo: un pentola messa sopra al carbone con un po’ di “Nischima”(la polenta) ed un’altra con alcune verdure, nulla più.
Lucky comincia a fare le presentazioni e ad un certo punto dalla piccola porta della baracca escono altri 2 bambini, di cui una piccolissima. L’anziana signora ci sorride e ci dice qualcosa in Bemba.
Ci invita ad entrare in casa. Entriamo per la piccola porta nell’unica stanza. In un angolo alcune stuoie arrotolate, in un altro alcuni recipienti. Alla parete un vecchio calendario e per terra alcun “Icitenghe”, grandi stoffe che le donne usano per moltissime cose,come vestito, o per legarsi alle spalle i bambini,oppure come appoggio per la testa per trasportare quei pesanti cesti carichi di merci.
La nostra guida nel frattempo ci racconta la storia di questa famiglia. L’anziana è la nonna di quelle quattro creature. La mamma è morta da poco per AIDS, e il papà ormai da diverso tempo aveva fatto perdere le sue traccie.
In 1 minuto digerire una storia del genere per me non è stato facile. e soprattutto vedere il volto di quella donna e pensare al carico che deve portare sulle sue spalle....
E nonostante tutto il sorriso. un sorriso di speranza ricco di tutto, al contrario del nulla che possedeva.
Piccoli chiodi che si piantano nella mia mente...piccole ferite(benigne) che solo i poveri ti sanno provocare. Ferite create apposta per tenermi sveglio, anche quando ho la tendenza a rilassarmi o a diventare pessimista. Come si può essere pessimisti quando anche in una vita così piena di traumi c’è ancora chi riesce ad avere speranza.
La nostra piccola comitiva riparte...e riparto anch’io, ma lascio davanti a quella baracca, ai piedi di quell’anziana un pezzo di me, come se mi avesse messo un po’ a nudo.
L’odore di alcol si fa più acre, vediamo degli sbuffi di vapore salire al cielo, provenienti da una baracca mezza crollata a causa delle piogge.
Ed ecco da dove veniva quell’odore che saturava l’aria. Un bidone, una tanica d’acqua,una piccola bottiglia. Una distilleria improvvisata di “Cachasso”(non so se si scrive proprio così...).
È una bevanda molto alcolica prodotta con tutto quello che è possibile far bollire e distillare:scarti dei verdure, canna da zucchero, e ogni altra cosa. Il risultato è una sostanza super alcolica e super economica(1500kwaca a bicchiere, circa 30 centesimi). La bevanda dei poveri la chiamano. Ed è proprio vero. Si fa presto ad ubriacarsi e a dimenticare almeno per un po’ le asprezze della vita nel compound.
Lungo il nostro cammino ne incontreremo tantissimi di questi produttori improvvisati.
Come è triste pensare che vendono questa bevanda che brucia i cervelli, le persone e le speranze proprio a loro stessi “fratelli”. E per molte famiglie è l’unica entrata, e l’unico modo per poter comprare qualcosa da mangiare.
Fratelli che “bruciano” i loro stessi fratelli....e il tutto per sopravvivere!!!
Incrociamo due ragazzi, visibilmente ubriachi, che ci chiedono soldi, lavoro...la solita triste storia.
Per fortuna siamo accompagnati. Anche durante il giorno è pericoloso girare per questi posti, dove purtroppo alcune persone, i più deboli, vengono abbruttite e incattivite dalle condizioni in cui vivono.
La strada sale per la collina. Io con le mie infradito faccio un po’ fatica, ed i miei piedi piano piano stanno prendendo il colore della terra di questi luoghi.
Lucky ci accompagna fino al punto più alto della baraccopoli, da dove(dice lei), si possono fare delle foto panoramiche. Si vede che è abituata ad accompagnare benefattori, turisti, personalità zambiane varie che vengono a visitare il centro nutrizionale. Tutti a caccia di foto, tutti a caccia di giustificazioni per vedere, anche giustamente dove vanno a finire i soldi donati etc...
Io con le foto in questi posti faccio sempre fatica. Già è una sfida ogni volta sostenere l’incontro con le persone di questi compound, figuriamoci a fare le foto. Mi pare di essere allo zoo.è che qui ci sono uomini e donne in carne ed ossa con le loro storie e le loro vite. Ed ogni foto per me è come togliere un pezzettino di dignità, quella dignità che provano a conquistarsi ogni giorno...nonostante tutto.
Comunque i miei compagni hanno fatto alcune foto, anche a me. Quando le avrò ve le mando.
Dopo poco arriviamo in cima alla collina. Entriamo in un piccolo recinto che fa da ingresso ad un altrettanto piccola abitazione. Ci accoglie una ragazza, molto giovane e molto bella, intenta a stendere il bucato. Sulle spalle portava un bimbo piccolissimo, e altri due le giocavano intorno.
Anche lei molto gentile ci fa entrare in casa. Anche qui dentro regnava l’essenzialità assoluta.
Ad un certo punto prende da un recipiente alcune noccioline e ce le porge. Io e gli altri ci siamo guardati in faccia,come a dire”Ma come facciamo ad accettare qualcosa da lei che vive in questa miseria!!”. Ma anche la nostra guida ci invita a prenderne,come segno di cordialità e condivisione.
Così sgranocchiando quelle noccioline per poco non mi scendeva una lacrima, ma quelle di gioia però!!
Grazie una nocciolina, per un istante, ci siamo seduti vicini, noi stranieri e lei zambiana, noi “ricchi” e lei “povera”, noi pieni di cose e lei senza troppe cose!!
È stato un istante, ma un istante intenso per me. La sua bellezza e la dolcezza del suo volto sembrava voler nascondere la sua difficile storia (era stata abbandonata dal marito con 3 bambini).
Uscendo riflettevo su quello che avevo appena vissuto.
È proprio vero. Più cose si hanno e più ci si allontana dalle persone. Più la corsa a possedere cose e sfrenata, e più ci si chiude, pensando che possedendo tutto quello che ci serve(e più), si possa fare a meno degli altri. E quanto tempo perdiamo in questa corsa, tempo che togliamo ai rapporti con le persone, a noi stessi...alla vita!! Forse dovremmo davvero, io per primo, sbarazzarci di tante COSE inutili, per vivere meglio la vita, e soprattutto per condividerla.
La semplicità di quella ragazza. Il suo non avere nulla in casa, di suo, a parte quelle noccioline da sgranocchiare insieme, e il suo tempo da condividere. Altra lezione. Bene Davide, incartala anche questa e mettila via....ti potrà servire un giorno quando ti chiederanno qualcosa o ti farai prendere troppo dalle cose da possedere!!
Mentre faccio questi pensieri guardo giù dalla collina. Da qui si domina veramente tutto il compound. Case e tetti ammassati. Voci, suoni e odori. Gente che cammina e soprattutto storie. Storie difficili, violente, ma anche di speranza, di lotta...tante storie che si intrecciano in quel groviglio ammassato di baracche.
In lontananza imperioso, spicca in fondo alla vallata il mega depuratore, dove arrivano tutte le fogne della città, le fogne dei ricchi(forse anche le mie). Ma i liquami del compound no. Quelli corrono a cielo aperto...la merda dei poveri e costosa da smaltire, e soprattutto non possono pagare per smaltirla! Anche in questo sono gli ultimi!!
Riscendiamo la collina per andare verso il cimitero del compound, la nostra prossima tappa
Alla nostra destra sento un gran vociare...decine di donne con la pala in mano stavano preparando una nuova zona del compound, da noi sarebbe una lottizzazione. Ancora donne al lavoro.
Egli uomini? Tanti sono sparsi nei vari pub, ad annegare la propria vita nell’alcol, che annebbia la mente, ma anche i pensieri.
Qui sono le donne che portano avanti la vita:la famiglia, il lavoro, i figli, le faccende domestiche...tutto!!
Di certo non tutti gli uomini sono uguali...anzi!!! molti sono quelli che all’alba partono con le loro bici cariche di carbone verso la città in cerca di guadagnare qualche spicciolo. Oppure che con la falce in mano vanno verso le ville dei ricchi a cercare qualche prato da tagliare. Ne vedo molti di questi uomini, ogni giorno. E vedo le loro fatiche e il loro faticoso cammino quotidiano verso la conquista di un nuovo giorno da vivere dignitosamente!!
Arriviamo finalmente al campo santo. È un luogo molto frequentato qui, ma non dai vivi che vanno a trovare i cari defunti. La mortalità a causa di AIDS, TBC e malaria è altissima. La morte è una compagna di vita per quasi tutte le famiglie e non passa giorno che qualcuno venga seppellito.
È la triste realtà quotidiana. Già la morte è inevitabile, ma qui anche quando sarebbe evitabile, mancano i mezzi per contrastarla, e si muore ancora di malaria, curabile se diagnosticata, con poche medicine.
Da questo luogo di morte ripartiamo verso il centro nutrizionale, fine del nostro cammino. Mi giro e vedo ancora i bambini che mi seguono. La VITA che portano con il loro sorrisi sembra spingermi fuori dai miei tristi pensieri. Faccio una finta, mi giro e li rincorro per un po’. Loro divertiti scappano e subito si riavvicinano.
In mezzo a questa mattinata passata nel compound quanta vita ho vissuto, quanta miseria ho visto, quante storie mi sono state raccontate, quanta speranza ho respirato.
E quei bambini, la mia scorta, mi stavano dando l’ultimo messaggio prima del mio ritorno a casa:”Davide, corri, ci siamo noi che ti spingiamo. Non fermarti davanti alle ingiustizie, non abbatterti troppo davanti alle situazioni che non riesci ad accettare, non farti prendere dal pessimismo quando vedi che le ingiustizie a questo mondo non sembrano diminuire, non perdere il tuo tempo a farti troppe paranoie mentali!! Ci siamo noi qui dietro che ti scortiamo e che ti spingiamo!!”. Ma io mi chiedo, che futuro potranno avere questi bambini? Diventeranno alcolizzati anche loro? Una volta lasciati i loro giochi e la loro innocenza, che mondo troveranno?
Ma di nuovo sento che con i loro sorrisi e le loro corse sono li dietro di me...e non riesco a non sentirmi chiamato da loro e interpellato. Da loro, come da quell’anziana, da quella ragazza bellissima, da quei giovani ubriachi, da quella donna sulla strada.
Quei piccoli chiodi ormai sono tutti piantati e sono li per tenermi sempre sveglio ...e per provare anche stavolta a trasmettervi quello che provo.
È sera e sono sotto la doccia. Dai miei piedi ormai marroni esce tutta la polvere di una giornata vissuta per strada. “buon segno”, mi dico. Sono riuscito, almeno per qualche istante, a camminare in quella polvere, molte volte dimenticata da troppi!!
Vi ho raccontato di quei piedi sporchi!! Chissà che riesca a sporcarmeli di nuovo nel tempo che avrò da vivere qui...e soprattutto di riuscire a raccontarvi delle persone e della vita che hanno incontrato nella loro strada quei piedi!!
Vi mando un grosso abbraccio a tutti!!

Davide

P.S.non so come sia scritta questa mail, non so se i tempi dei verbi o altre cose sono giuste, non l’ho riletta e poi è tardi(è l’una!),,,portate pazienza!!!

Fra le foto, una l'ho fatta a Lusaka, la capitale dello Zambia, e centro di tutte le contraddizioni del paese.
Sullo sfondo un mega cartellone pubblicitario che propone bella luccicante una super auto...solo un'illusione per quasi tutti gli zambiani.
E sotto a questo cartellone(se fate uno zoom li potete notare)un gruppo di ragazzi di strada in riunione con alcuni dei loro "capi", si stanno preparando per la notte...da passare naturalmente on the road. Fra l'illusione di quel cartello e la vita della strada ci sono loro, con le loro vite e chissà con quali speranze per il fututo...magari di comprarsi proprio quella bella macchina.
Intanto pero' sono li' a sniffare colla, sfruttati da gente senza scrupoli....meditiamo...meditiamo!!
A me viene il magone ogni volta che rivedo questa foto, anzi e' quasi rabbia!!!

Quale giustizia?

sabato 16 maggio 2009
Spesso si sente nominare il termine giustizia nella quotidianità, nei talk show, nei tg, in molti slogan di partito, e perfino in certi “discorsi da bar”. Anche giornali e riviste ne sono pieni.
Tutti sembrano invocare giustizia per quel morto, per quella ragazza violentata, per le vittime di un terremoto, contro i finanzieri che giocano con il denaro altrui.
Anch'io nel tempo ho provato a farmi un'idea di cosa volesse dire per me la parola giustizia.
Pensavo di saperlo, anzi di essere certo che ciò che io pensavo fosse la verità. Anche dopo i miei nove mesi vissuti in Zambia, questo termine sembrava prendere un significato sempre più radicale.
Dopo aver visto la fame, la miseria e l'abbruttimento che questa provoca nelle persone, la mancanza di qualsiasi cosa materiale, fino ad arrivare alla mancanza di speranza, che forse è cosa ben peggiore, avevo trovato la mia ricetta di giustizia per il mondo.
In fondo ritenevo giusto che tutti dovessero avere una vita dignitosa: poter avere una casa decente dove vivere, dotata magari di qualche confort, una piccola lavatrice, o una cucina anche modesta. E poi ancora un'auto per gli spostamenti, dei vestiti puliti da indossare, la possibilità di viaggiare, di avere tempo per se stessi e non solo per il lavoro. Come non avere diritto ad esempio ad un computer con cui poter comunicare col mondo, oppure ad uno stereo per ascoltare della buona musica. E poi l'istruzione, la migliore che si può e per tutti, e le cure sanitarie, perchè senza la salute tutto il resto decade.
Questa era la mia idea di giustizia, e forse lo è ancora oggi. Non sono richieste stratosferiche, anzi mi sembrano tutte cose ragionevoli e anche realizzabili.
Poi come succede per molte altre cose, funziona sempre meglio la teoria, che può essere facilmente scritta come in questo caso, oppure declamata da qualche abile oratore. Quando si passa alla realtà delle cose poi i nodi come sempre vengono al pettine.
Come conciliare queste istanze di giustizia con la situazione reale del mondo?
Se tutti avessero le cose che possediamo noi, sia materiali che immateriali, ci vorrebbero cinque pianeti come il nostro solo per estrarre le materie prime e sistemarci i rifiuti.
Se tutti avessero quelle cose che per noi sembrano scontate, un'auto, un computer, una casa spaziosa, un sacco di gadget che ci aiutano a vivere meglio, libri, dvd, addirittura carta igienica e acqua a disposizione in quantità industriali come abbiamo noi, dove troveremmo le risorse?
Questo sistema è funzionale al nostro stile di vita, gli squilibri mondiali ci permettono di poter possedere tutte le nostre “cose” e i nostri piccoli privilegi.
Anche la nostra visione di giustizia è funzionale alla nostra idea di vita. Anche ciò che pensavo io si è bruscamente ridimensionato.
Non esiste giustizia se non a partire da noi stessi e dalla nostra quotidianità.
Come possiamo pretendere che tutti nel mondo stiano come noi, quando sappiamo benissimo che ciò non sarà mai possibile per la limitatezza delle risorse mondiali?
Sarà ancora una volta l'ipocrisia che ci guiderà (me per primo), quando ci riempiremo la bocca di slogan sulla giustizia e argomenti simili. Mi rattrista sentire le tante sirene in tv che ululano questa parola, che per me ha preso significati nuovi...quanta tristezza.
Adesso forse comincio a capire cosa si potrebbe fare. Ripartire dai nostri stili di vita, dal consumare meno, dall'economia solidale. Passare dall'isolamento e autosufficienza alla condivisione e solidarietà. Consumare meno ed essere più felici è possibile, e soprattutto è più giusto.
Nella quotidianità mi sento molto coinvolto in queste tematiche, e provo a portarle avanti e a farle mie nelle piccole scelte di ogni giorno, pur nelle mie piccole grandi incoerenze.
Non mi sento solo in questa “battaglia”;molti sono i movimenti nati in questi anni che si interrogano su questi argomenti, che propongono e condividono questa nuova idea di giustizia che parte prima da noi per poi proporsi al mondo.
Ancora una volta il legame nord-sud del mondo ricompare nella sua attualità. Non possiamo parlare di giustizia se prima non ci educhiamo di essa. Solo quando sapremo dare il giusto significato a questa tanto bistrattata parola potremo star bene con noi stessi e con gli altri, e soprattutto essere testimoni ed educatori credibili, anche per le tante persone impoverite del mondo che aspettano il nostro cambiamento.

Diversi, ma uguali!

lunedì 11 maggio 2009
Il titolo di questo post potrebbe sembrare lo slogan di una campagna contro il razzismo, oppure il tema di un concorso fotografico.
In realtà si tratta del filo conduttore di una serie di incontri e laboratori organizzati nella scuola dell'infanzia “S. Maria” a Casalserugo, il paese dove vivo.
Dopo il mio ritorno in Italia dall'esperienza del Servizio Civile Internazionale, che mi ha portato a vivere nove mesi della mia vita in Zambia, le cose che avrei voluto fare erano tante.
La fatica del ritorno era quasi opprimente. Tutto intorno a me era improvvisamente cambiato. Riadattarsi nuovamente ai ritmi, alla vita, alle consuetudini del mondo Occidentale non è stato facile (e nemmeno ora ci sono riuscito del tutto, e forse mai ci riuscirò).
Mi sentivo una sorta di reduce. Tutti per fortuna mi hanno stretto in un abbraccio caloroso al mio rientro, e questo mi ha aiutato molto.
Ma da dove ripartire? Dopo aver lasciato un bel po' di sicurezze prima della mia partenza, era giunto il momento di gettarsi nuovamente verso il futuro.
Di idee molte, troppe forse. Avrei voluto cambiare il mondo, avrei voluto che tutti la pensassero come me, pensavo che i miei “sermoni” sui problemi della società e del globo, con cui tediavo tutti quelli che incontravo, dovessero essere la verità che ognuno doveva seguire…senza fare storie e senza obiezioni. Di certo con queste mega idee non sarei andato da nessuna parte. Tradurre invece tutto ciò in piccoli gesti quotidiani, in piccole testimonianze, anche a partire dal luogo in cui si vive, questo si poteva dare un senso al mio ritorno, e contribuire a diffondere e ridistribuire la fortuna che avevo avuto nel vivere tale esperienza.
Poi, come spesso capita, arriva l'occasione che trasforma il pensiero in realtà.
Donatella, coordinatrice della Scuola dell'Infanzia del mio paese e cara amica, mi ha invitato a fare insieme ai bambini un “Progetto Africa”. Fin da subito questa idea mi è piaciuta, senza però sapere minimamente da dove partire e cosa effettivamente proporre.
Ma l'entusiasmo non mancava, sia da parte mia, sia da parte di tutta l'equipe della scuola.
Così, dopo un paio di incontri, abbiamo creato insieme una scaletta di attività dal profumo africano, e in particolare zambiano.
Di spunti ne avevo a piene mani. Nove mesi al Progetto Cicetekelo, vissuti per dieci ore al giorno assieme ai bambini e ai ragazzi ospitati mi permettevano di spaziare un bel po' fra i miei ricordi.
Diversi ma uguali:partire dalle cose in comune per scoprire che , nonostante la distanza sia culturale che spaziale, sempre di bambini si tratta.
Da questa idea di fondo è nata la scaletta delle attività.
1.Presentazione dello Zambia, con una valigia piena di ricordi, oggetti, foto, carta geografica. Insomma tutto il necessario per capire chi fossero i nuovi amici che pian piano avremmo incontrato.
2.Gli animali della savana. La giraffa, la zebra, il leone, le scimmie. E poi i villaggi, le capanne, i modi di vivere dei bambini zambiani.
3.Come si gioca in Zambia? I bambini giocano anche lì, proviamo a scoprire con che cosa!
4.Laboratorio di danza e musica, con il bongo e balli al ritmo zambiano.
5.Alcuni usi e costumi. Come trasportare i cesti in testa e i bambini nella schiena.
6.Cena a menù zambiano, seduti per terra e mangiando con le mani!
Così per sei venerdì mattina sono stato ospitato da 70 piccole creature che si sono prestate alla grande nelle varie attività proposte.
Non avevo mai avuto esperienze educative con bambini così piccoli,e mi ha stupito la loro attenzione, le loro domande curiose, la voglia di conoscere, e di ascoltare ciò che raccontavo.
Mi sono emozionato molte volte. Al mio arrivo a scuola l'accoglienza era sempre calorosa.
Fin dal primo incontro, nel quale abbiamo visto le foto e i video che avevo realizzato al Progetto Cicetekelo, era già nata una grande amicizia a distanza fra i bambini.
Il divertimento poi nel trasformarsi in piccoli trasportatori, in cui ognuno doveva portare un cesto carico in testa, percorrendo un percorso ad ostacoli.
E poi improvvisarsi piccole mamme, con la piccola (bambola) legata dietro alla schiena con il chitenghe(tipico tessuto africano), proprio come le mamme zambiane.
Per i bambini è stata una sorpresa poi l'attività legata ai giochi africani, di sicuro la più attesa. Abbiamo costruito delle piccole palle fatte con materiale di recupero, e poi la corsa coi sacchi, e il percorso con le caviglie legate, giusto per citarne qualcuno. Giochi semplici, diffusi anche da noi un tempo, che per i bambini sono diventati vere e proprie nuove scoperte.
Man mano che aumentava la conoscenza con questo nuovo mondo, aumentava anche la simpatia e la voglia di approfondire, tanto che spesso chiedevo chi volesse partire con me per incontrare di persona questi nuovi amici, e magari giocarci insieme. E la risposta quasi unanime era regolarmente un coro di “Siiiiiiiiiiiiiiii”.
L'ultimo appuntamento è stato forse il più divertente. Dopo aver steso un grande telo nel pavimento, i bambini seduti tutti per terra hanno finalmente provato a mangiare “alla zambiana”. Menù a base di polenta, fagioli, uova lesse, e riso. A dire il vero non è stato particolarmente difficile per loro cimentarsi in questa attività, anzi! Forse il difficile è venuto dopo nel pulire i pezzi di cibo che nonostante il telo erano sparsi ovunque, anche nei loro vestitini.
In questo progetto tutta l'equipe della Scuola dell'Infanzia ha investito molto tempo ed energie, e i risultati si sono visti. Il coinvolgimento dei bambini è stata la testimonianza di questo impegno, che è stato portato avanti anche dai genitori stessi. In occasione del Natale hanno infatti promosso la vendita di calendari proprio del Progetto Cicetekelo, dove è stata raccolta una considerevole somma, tutta versata per far fronte alle enorme spese di gestione e funzionamento delle strutture in Zambia.
Non so spiegarmi del tutto il successo di questa iniziativa, partita sicuramente in maniera semplice e forse non troppo organizzata. Non mi aspettavo di certo un coinvolgimento del genere.
Di sicuro per me è stato un buon banco di prova per mettere a disposizione ciò che ho vissuto, e per sperimentare questa tanto declamata educazione alla multiculturalità, magari con i miei insufficienti strumenti, ma con la grande voglia di mettermi in gioco nella quotidianità.
Questo piccolo gemellaggio a distanza fra bambini, questo scambio di culture attraverso semplici gesti e attività ha portato un po' di sana positività, anche negli adulti.
I bambini lo sappiamo si mettono facilmente in gioco, si lasciano trasportare dalle emozioni e dalla voglia di scoprire cose nuove, arrivando ad accettare di buon grado l'esperienza della diversità.
Nei grandi invece questo avviene un po' meno. Abbiamo il cuore più duro,e siamo a volte messi alla prova dalle cose della vita e da tutto ciò che sperimentiamo e che ci viene raccontato nella quotidianità.
Le notizie di ronde per la sicurezza, di emergenza criminalità, la paura della diversità, vista spesso come stereotipo, il condizionamento che subiamo ogni giorno da parte dei media.
Tutto ciò di certo non aiuta a migliorare le relazioni già difficili fra diverse colture, e tanto meno ci stimola a conoscere ed apprezzare le diversità, facendoci barricare dietro alle nostre sicurezze.
Questo esperimento invece è andato oltre. Oltre le diversità, che pure esistono, fino ad arrivare alle cose che ci rendono simili.
Sentirsi bambini in Italia come in Zambia, con la stessa voglia di giocare, mettersi alla prova, scoprire, di rompere le scatole a volte, ma sempre con la grande genuinità che solo i bambini possiedono e che ogni volta sembrano volerci insegnare.
Una piccola esperienza di certo, ma grande per il significato simbolico, una goccia in mezzo alle mille cose che vivranno questi bambini. Ma pur sempre un inizio, un piccolo punto interrogativo che ci invita a fermarci e a domandarci come poter apprezzare le nostre diversità, senza farci fermare da esse.
Anche questa è educazione, partita dallo Zambia e rimbalzata fino al mio sperduto paesino, e di nuovo ripartita verso quei bambini del progetto Cicetekelo diventati inconsapevoli educatori, in uno scambio che vuole continuare...nel segno di “Diversi ma uguali”.

Ora commenti!

sabato 9 maggio 2009
Acausa di un problema al layout del blog non era possibile scrivere commenti ai post.
Problema risolto...ORA ASPETTO I VOSTRI COMMENTI!
Ciao a tutti.

Educare alla speranza

giovedì 30 aprile 2009
Educare alla speranza. Non so se esiste una vera e propria branchia dell'educazione che si chiama così, ma sento che questa espressione può essere un buon punto di partenza per raccontare la mia esperienza di Servizio Civile Internazionale.
Nel 2007 ho partecipato al “Progetto Caschi Bianchi – Corpo civile di Pace” e grazie all'Associazione Papa Giovanni XXIII ho vissuto nove mesi della mia vita al “Cicetekelo Youth Project” di Ndola, in Zambia.
Questa avventura è nata dalla voglia di prendere il mano il copione della mia vita, come scrivevo nel post precedente, e grazie ad una serie di circostanze sono arrivato fino a quelle terre lontane.
A dire il vero non è stato facile prendere questa decisione. Pensavo che superato lo scoglio delle selezioni tutto sarebbe stato semplice. Invece lasciare il lavoro per sempre, allontanarmi per un po' dagli affetti, dalla famiglia, dai luoghi a me cari, tutto ciò si rivelò come un ulteriore ostacolo.
Ma troppa era la voglia di mettermi in gioco e troppo il privilegio di poter vivere un'esperienza del genere.
Il Progetto Caschi Bianchi è parte integrante del Servizio Civile Nazionale, il quale nasce dall'eredità lasciata dagli obiettori di coscienza, e dall'evoluzione successiva delle leggi in materia. Si tratta di un periodo che i giovani dai 18 ai 28 anni possono “spendere” in settori prevalentemente del sociale, in varie associazioni sparse nel territorio italiano ma non solo.
Dopo i primi due mesi iniziali di formazione, uno degli aspetti fondamentali della mia “missione” da Casco Bianco, sono partito alla volta dello Zambia.
Lì ad accogliermi ho trovato i 250 ragazzi del Progetto Cicetekelo. Questa grande struttura è nata più di 10 anni fa dall'idea di Stefano Maradini, missionario dell'Associazione Papa Giovanni XXIII.
Dopo aver visto la condizione dei ragazzi costretti a vivere nelle discariche della città o per le strade del centro decise, insieme a padre Umberto Davoli e Patrick Mulenga, di trovare una soluzione.
Cicetekelo, che in Bemba (una delle lingue zambiane) vuol dire SPERANZA, è stato il filo conduttore, la base da dove è partito tutto.
Ora il progetto è diviso in due fasi. La prima, situata nel compound di Nkwai, accoglie i ragazzi dai 9 anni fino ai 16 anni;in seguito passano alla seconda fase, dove proseguono la loro formazione scolastica e professionale.
Al termine del percorso educativo alcuni dei giovani vengono impiegati direttamente nelle varie attività produttive del progetto. Tra queste l falegnameria, l'allevamento suini, l'orto, l'agricoltura, la scultura della pietra saponaia.
Ogni giorno un turbinio di attività cominciava fin dal primo mattino. Le mie giornate le ho passate principalmente con i ragazzi della fase 1, i “miei teppisti”. Alcuni di loro frequentavano la Community School all'interno del progetto, altri invece studiavano presso le varie scuole governative della zona.
Il mio “lavoro” era quello di organizzare il tempo libero, in equipe con Caterina, mia collega Casco Bianco, il coach del progetto, e gli operatori che tutti i giorni avevano cura dei ragazzi.
Nulla di speciale o di particolarmente complicato a prima vista, ma gestire tutte quelle forze messe insieme non era invece facile.
Nonostante tutto ogni giorno si riusciva ad inventare qualcosa. Lavori con il cartoncino, pomeriggi creativi con tempere e pennarelli, tornei di tutti i tipi, addirittura le olimpiadi durante i periodi di vacanza, con tanto di squadre e premiazioni. Non sono mancate poi attività più “serie” come la biblioteca, la scrittura, fino ad arrivare alla produzione di un vero e proprio giornalino (puoi leggerlo quì) creato interamente dai ragazzi più grandi!!
E quando si poteva (i ragazzi lo avrebbero voluto tutto il giorno) ore e ore di calcio sotto il sole cocente...e naturalmente scalzi.
A quasi due anni di distanza mi chiedo che cosa mi sia rimasto di quella esperienza, e che cosa sia rimasto di me laggiù. Di sicuro ho imparato l'importanza di ascoltare e non giudicare, di sforarsi sempre e comunque di apprezzare le diversità, anche se molto spesso non le tolleriamo.
Come non parlare poi della speranza. È proprio vero che si riesce ad essere contagiosi alle volte, ma non solo con le malattie.
Quei bambini, quei ragazzi mi hanno contagiato la voglia di vivere, nonostante tutto. Sono stati i miei educatori, magari non avranno molte carte deontologiche come riferimento, ma le norme etiche me le hanno insegnate nella quotidianità. Nello stare assieme a tavola davanti alla stessa polenta, nel camminare insieme su strade polverose, nel ridere delle mie unghie rotte nelle prime partite di “calcio zambiani”, nel condividere piccoli pezzi di quotidianità.
Un progetto nato per dare speranza. Se dovessi fare una verifica, come si usa sempre fare quando c'è un progetto, direi che gli obiettivi sono stati centrati in pieno, e forse anche superati.
Quella speranza che i ragazzi ricevono, grazie ad una nuova e più dignitosa condizione di vita, esce da quella realtà così lontana. È arrivata fino a me e a tanti ragazzi che hanno avuto il privilegio di vivere un'esperienza come la mia...ed è arrivata fino a questo blog.
E allora l'educazione alla speranza potrebbe essere proprio questo: un impegno che parte da qualche parte nel mondo, ma che si propaga senza confini e che ci rende responsabili l'uno con l'altro.
Una nuova disciplina di cui tutti noi siamo responsabili in cui ci impegniamo a “nutrire” di speranza chi ne è affamato, soprattutto tramite gesti concreti, e allo stesso tempo ci lasciamo nutrire.
E Cicetekelo Youth Project, con l'impegno di tutti coloro che ci lavorano, è un piccolo esempio di educazione alla speranza.
E voi siete pronti a educare (e farvi educare) alla speranza?

Attori e Spettatori

mercoledì 29 aprile 2009
Parlare di educazione può risultare facile, anzi, forse lo è.
Tutti in quanto persone recitiamo la nostra parte in questo teatrino del mondo e tutti, chi più chi meno, diventiamo protagonisti di rapporti, relazioni, che incidono anche in maniera significativa negli altri.
A volte preferiamo invece rimanere spettatori, osservare gli eventi che passano, farci trascinare dal mondo che scorre. Come stanche comparse ci lasciamo trasportare dal flusso della vita, ritagliandoci al massimo qualche piccola battuta per giustificare almeno la nostra presenza in questo set dell'esistenza.
Attori e spettatori che si incrociano, tutti in affannosa ricerca del proprio camerino, del proprio palco, e se capita del momento di gloria e magari del tanto atteso applauso.
Da buon attore di questa meravigliosa rappresentazione, chiamata anche vita, anch'io nel tempo ho recitato la mia parte, e ne ho incontrate di persone che mi hanno cambiato la vita aiutandomi a scrivere il mio copione.
E questi incontri sono stati una sorta di educazione alla vita, un punto da cui cominciare ad interrogarmi su me stesso e sulle scelte da fare.
E fra queste come non ricordare l'esperienza che ho vissuto in Zambia nel 2007 ne progetto Caschi Bianchi, nell'ambito del Servizio Civile.
Nove mesi vissuti al Progetto Cicetekelo che accoglie più di 200 ragazzi di strada e con problemi gravi alle spalle. Una realtà che mi ha mostrato le potenzialità dell'educazione anche nei paesi “poveri”.
A questo progetto, a quei ragazzi, ai loro sogni vorrei dedicare il prossimo post.
Intanto continuiamo a riscoprirci attori delle nostre vite, e che ognuno nel suo piccolo ruolo non si riduca mai a semplice spettatore o comparsa. Anzi, proviamo insieme a scrivere in nostri copioni, soprattutto chi ha scelto di vivere la vita da educatore!

Cos'è Edu-Care?

giovedì 9 aprile 2009
Edu-Care nasce da un semplice gioco di parole che per me racchiude un grande significato. Da una parte l'educazione, attività in cui tutti siamo coinvolti, dalla più piccola situazione quotidiana, alle più grandi dinamiche globali. E dall'altra il termine "Care", cioè prendersi cura, preoccuparsi, usato anche da don Milani nel famoso motto della scuola di Barbiana: "I care" - mi importa, ho a cuore.
Questo blog vorrebbe essere il punto di partenza per proposte educative che partano dalla quotidianità, dalla realtà che ci circonda, fino ad arrivare ai confini del mondo. Un luogo di incontro fra culture, uno spazio di riflessione dove poter condividere tutto ciò che può essere utile a "prendere a cuore" l'educazione.
Particolare riguardo sarà riservato all' educazione nei Servizi Sanitari, ambito per il quale sto studiando.
Edu-Care si propone inoltre di tenere sempre un occhio aperto verso il mondo, di raccogliere esperienze, idee, notizie, e tutto ciò che può arricchire noi e questo piccolo mondo virtuale...nella speranza che ciò che viene "digitato" possa essere trasformato in pratiche concrete!